Comunione e Solitudine



COMUNIONE E SOLITUDINE

NELLA TEOLOGIA GRECO-ORTODOSSA CONTEMPORANEA 
 

            La tematica di questo colloquio su “comunione e solitudine” richiama alla mente di ciascuno la storia dell’avventura dell’umano, di ogni realtà umana singola o comune, di ogni espressione dell’umano; in modo paradigmatico quella dell’uomo con se stesso e i suoi simili, con Dio e il mondo. Ma per chi si radichi nella storia biblica raccontata dagli apostoli, tale tematica mi sembra rinviare innanzitutto al mistero pasquale di Cristo e di ogni realtà e situazione umana in Cristo vissuta nella profondità pneumatica del suo corpo misterico (ecclesiale) situato nel contesto globale dell’economia paterna per noi.


Rispondendo all’invito della Comunità di Bose per il quale mi sento profondamente riconoscente e nella speranza di non deludere troppo le vostre aspettative, cercherò di esporre brevemente alcuni punti significativi della riscoperta della tematica sulla comunione fatta dalla teologia greco-ortodossa (dagli anni sessanta-settanta) tramite i suoi maggiori esponenti, quali Christos Yannaras e Ioannis Zizioulas (attuale metropolita di Pergamo), in primis, ma anche Panayotis Nellas e altri. È da notare che in questi autori la problematica della comunione è stata abbordata dal punto di vista teologico – sistematico, in chiave ecclesiologica e prosopologica e dal punto di vista storico-ermeneutico in un contesto epocale neo-patristico.

            Parlare di una determinata problematica (“comunionale” nel nostro caso) e della sua “riscoperta” o “rinascita” in un determinato contesto epocale (neo-patristico in ultima analisi) significa da una parte reperire le sue origini intellettuali nella storia del pensiero, quella più vicina a noi prima, e dall’altra contestualizzare la sua riscoperta in una situazione storico-teologica precisa; riconoscere cioè in questa riscoperta sia i debiti (storici) ma anche i limiti (contestuali), senza per niente minimizzare con ciò l’importanza storica della riscoperta, la grandezza spirituale dei suoi autori e la fecondità straordinaria delle loro opere.

            Ora in ciò che segue non intendo tanto riferirmi a delle tesi concrete prosopologiche ed ecclesiologiche dell’uno o dell’altro, quanto piuttosto alle strutture di pensiero sottostanti alle loro tesi (determinando i contenuti), strutture che in fondo mi sembrano comuni. Non vorrei qui esporre i vari approcci della problematica prosopologica ed ecclesiologica sulla comunione dei pionieri di questa riscoperta. Tale cosa sarebbe impossibile, visti i limiti del tempo e caricaturale data la ricchezza e la complessità delle opere e delle sintesi dell’uno e dell’altro. Mi propongo invece, prima, di contestualizzare la riscoperta accennando alla situazione storico-teologica di allora (e quindi ai suoi limiti epocali). In seguito, mi soffermerò sugli antecedenti storici della problematica ecclesiologica e prosopologica della comunione, sul significato spirituale della sua rinascita in Grecia come pure su alcune tra le questioni aperte che una certa struttura ermeneutica, probabilmente ereditata e perpetuata forse inconsciamente in Grecia. Ciò facendo allargherò in un certo senso lo status quaestionis sulla comunione nella teologia ortodossa contemporanea.


Situazione storico-teologica


            Sembra difficilmente negabile il fatto che la teologia ortodossa del xx secolo nel suo insieme, oltre che dalla presenza profetica della diaspora russa in Europa occidentale e dal coinvolgimento panortososso al Movimento ecumenico è stata profondamente segnata anche dal 1° Convegno Internazionale di Teologia tenuto ad Atene nel 1936. Tra le varie voci presenti in questa circostanza, determinante per noi è quella di Georgij Florovskij con la sua duplice tesi storica ed ermeneutica: la tesi sulla “pseudomorfosi” della teologia ortodossa postbizantina, ossia sulla sua occidentalizzazione (parte storica), come pure sull’ “ellenismo cristiano” come categoria eterna della teologia (parte ermeneutica). Da qui in poi, Florovskij si fece pioniere dell’urgenza quasi apocalittica per un ripristino immediato dell’ethos patristico in teologia, attraverso una sintesi “neo-patristica”. In ciò fu seguito quasi dappertutto, sovente in maniera semplificatrice e poco consona alle sue intenzioni profonde.  Ed è ben nota l’ideologizzazione di un “ellenismo eterno dei Padri”. Benché queste cose siano ben conosciute da tutti, mi permetterò di soffermarmi brevemente per richiamare all’attenzione alcuni aspetti della tesi florovskiana; non tanto per se stessa ma in quanto determinante la situazione storico-teologica della riscoperta in Grecia della problematica prosopologica ed ecclesiologica sulla comunione (dagli anni sessanta-settanta e forse fino ad oggi).

            Nel centro della tesi storico-ermeneutica florovskiana vi si trova, pare, una duplice aporia della stessa fattura: l’aporia sull’identità ortodossa in piena modernità (in diaspora), insieme a quella sul senso della tradizione ecclesiale nell’oggi della teologia ortodossa. Per essere compresa e situata, la duplice tesi di Florovskij, benché irriducibile alla genealogia, non potrebbe esserne certo dissociata. Mi riferisco qui alla famosa “scuola di Parigi” di quegli anni che chiamerei per convenzione “neo-ortodossa”: all’ambiente teologico-spirituale della diaspora russa in occidente (di Bulgakov in primis, ma anche di Florenskij e di Berdiajev per non citare che i più illustri). La diagnosi di una “pseudomorfosi teologica” (cattività occidentale della teologia ortodossa), la teorizzazione di un “ellenismo eterno dei Padri” e l’appello ad una “sintesi neo-patristica” urgente rappresentano in un certo senso la replica, o meglio la controproposta critica di Florovskij alla scuola “neo-ortodossa” di Parigi riguardo alla questione sull’ autocoscienza dell’Ortodossia in piena modernità e sul suo obiettivo e metodo teologico e spirituale. Pare insomma che il progetto “neo-patristico” florovskiano, focalizzato su una forma pre-moderna di pensiero (l’ellenismo cristiano che delimiterà in seguito i migliori tra i nostri in Grecia) sia stato fortemente condizionato (e quindi delimitato) in senso dialettico dal progetto “neo-ortodosso” della scuola di Parigi dell’epoca, focalizzato esso sul post-medievale della modernità occidentale.

            Ora l’appello ad un ritorno sull’ellenismo diacronico dei Padri, anche se prospettato nel futuro (“avanti con i Padri” diceva Florovskij) – o forse proprio a causa di questa specie di futurismo (aionismos) – in quanto progetto “neo-patristico”, resterà essenzialmente un progetto “neo-bizantino” per cosi dire, premoderno più che postmedievale (moderno). Da qui forse viene il suo rapporto ambiguo per lo meno con la modernità cattolica, protestante e secolare; con il nostro oggi culturale e la storia reale in breve e nonostante le sue intenzioni.

            Ma ciò non è mi sembra il più significativo. Essendo finalmente “neo-patristico” (centrato sulla storia della teologia e della spiritualità) e non prima di tutto “neo-apostolico” per cosi dire (centrato sulla storia della salvezza stessa), tale progetto di rinnovamento rischierà di favorire un inversione del rapporto tra storia della salvezza (economia trinitaria) e storia delle teologie (storia delle chiese e tradizioni); inversione del rapporto tra gli eventi salvifici stessi (secondo la testimonianza apostolica - Bibbia nella celebrazione misterica) e i commenti soteriologico-esistenziali più o meno autorevoli su questi stessi eventi salvifici (tradizione e teologie). Se poi tal progetto di ressourcement teologico viene assolutizzato, rischierà di restare non solo bloccato su alcune parti della storia della teologia e della spiritualità nel suo insieme multiplo ma svolgersi senza rapporto organico con la stessa storia della salvezza, l’economia trinitaria in Cristo, secondo la testimonianza biblico-apostolica, unica in maniera paradigmatica e fondatrice di ogni tradizione ecclesiale susseguente. La tradizione rischierà di inghiottire l’unicità esemplare e fondante del kerygma (testimonianza apostolica) ignorandola (facta dogmatica - dicta probantia). Ora il passaggio da una tale visione di tradizione ai tradizionalismi è spesso impercettibile, lo sappiamo tutti.

            Riassumendo: nel suo intento di impedire sia la dissoluzione della chiesa nel mondo che l’alienazione della teologia dalla cultura – della teologia ortodossa dalla cultura occidentale direbbe Florovskij – e la questione di un’articolazione ermeneutica corretta tra l’Evangelion del Regno e le [nelle] culture della storia non essendo sufficientemente problematizzata, il progetto florovskiano tornerà quasi fatalmente contro se stesso provocando un corto circuito. Quando si tenta di esorcizzare un occidentalismo teologico-culturale – in solidum, è da notare – con un ripristino neo-patristico di simile fattura, neo-bizantina per l’appunto, tale bloccaggio tra teologia e cultura (nella storia del mondo) rischia di identificare in maniera idealista, atemporale, la tradizione ecclesiale con la stessa storia della salvezza (economia trinitaria), la tradizione – multipla e unica – poi con una parte della storia culturale del mondo nella chiesa per salvare quest’ultima da un’altra parte della sua storia (culturale) e della sua “altra” tradizione; quella dell’occidente, che bene o male è la nostra di oggi quasi dappertutto.

            È forse in tale contesto di ritorno ad un “ellenismo cristiano” paradigmatico, e alle sue strutture concettuali supposte eterne – più che agli stessi fatti della “storia della salvezza” (o “economia trinitaria”) a partire del suo evento centrale ed unico (eph’hapax), la Pasqua di Cristo – che la riscoperta della problematica sulla comunione personale, nella libertà come amore, si effettuerà nella teologia greca. Fino ad oggi forse, la riscoperta della tematica comunionale in chiave prosopologica ed ecclesiologica sembra imprigionata in una situazione storico-teologica di tipo neo-medievale; e ciò nonostante l’immenso sforzo di I. Zizioulas, per non citare che un solo nome, di inquadrare l’“ellenismo cristiano” patristico in una prospettiva biblico - apostolica, “storico-salvifica”. Detto questo non intendo minimamente mettere in discussione la grandezza sistematica e l’importanza spirituale delle sintesi comunionali degli illustri pionieri greci. Mettere in risalto una situazione epocale (e i suoi limiti) ci incita anzi a riprendere delle riletture rinnovate delle opere, le loro, straordinariamente ricche in intuizioni teologiche e spirituali; e per noi comunque preziose.

Antecedenti storici e limiti della riscoperta
 


            Nessuno o quasi negava in Grecia, a partire dagli anni sessanta-settanta perlomeno, il bisogno di un autentico rinnovamento teologico nella fedeltà alla tradizione ecclesiale e al servizio dell’uomo contemporaneo. Secondo il paradigma “neo-patristico” (dell’ellenismo cristiano) tale rinnovamento era però inteso grosso modo come traduzione attualizzante o meglio come trasposizione al presente storico-culturale delle intuizioni dell’ellenismo patristico: un rinnovamento come cambiamento a livello di linguaggio in teologia  (esistenziale), a livello di presupposti e di contenuti (neo-patristici). In un breve periodo, il linguaggio esistenziale soppianterà in breve tempo quello scolastico di Trembelas, di Karmiris (e molto prima di loro di Andrutsos) nelle opere di Yannaras e di Zizioulas, per non citare che questi due pionieri illustri. Si potrebbe forse dire, schematizzando certo, che ad un accademismo scolare centrato su una metafisica astratta delle essenze, succede allora un approccio esistenziale e mistico centrato sulla persona concreta e l’evento di comunione, sul mistero profondo della chiesa, sulla sua testimonianza nel mondo e la sua presenza nel cuore del’uomo contemporaneo. [Dal fisiocentrismo al prosopocentrismo: ma basterebbe solo questo per un autentico rinnovamento in Cristo della teologia?]

            Come è stato osservato con pertinenza, l’ecclesiologia è stata la tematica dominante della teologia ortodossa del xx secolo. Ora la questione sulla natura profonda della chiesa e il tipo della sua unità organica – in base alla comunione nella libertà e nell’amore reciproco – era già stata sollevata, in Russia a metà del xix secolo, dagli slavofili (A. S. Chomjakov in particolare). Sotto l’influsso profondo del romanticismo tedesco (cf. J.-A. Mohler e la scuola cattolica di Tubinga) la chiesa era allora pensata come un vivo miracolo di unanimità, nella libertà e nell’amore mutuo, a immagine della perichoresi delle persone della Trinità ove esiste eternamente, in prospettiva slavofila, una riconciliazione autentica tra libertà e unità, archetipo dell’unità organica di tipo comunionale della chiesa.

            Mi permetto di attirare qui la vostra attenzione sulla struttura iconologica nel ragionamento idealista russo e di notare per inciso, anticipando sul seguito, la corrispondenza di tipo speculare (iconologia in chiave idealista) tra chiesa e SS. Trinità (immagine ed archetipo), tra comunione ecclesiale e comunione trinitaria. Una tale corrispondenza di tipo speculare si ritroverà malgrado tutto a livello ecclesiologico per esempio in Zizioulas (probabilmente via i residui slavofili di Afanass’ev, come contesto comunionale della struttura ecclesiale) come pure a livello prosopologico per esempio in Yannaras (in seguito forse a Berdiaev e come contesto comunionale della personeità umana). La realtà ecclesiale nel suo profondo (escatologico) e quella umana nella sua verità (eucaristica) saranno pensate come intrinsecamente relazionali e comunionali a immagine della realtà trinitaria (increata). Su questa struttura speculare, essenzialmente binaria della realtà – ove la mediazione di Cristo tra increato e creato non è strutturante (superflua?) – e sull’importanza della questione iconologica in teologia cristiana ritornerò in seguito.

            Sarebbe completamente sbagliato e fuorviante passare direttamente dall’idea di comunione secondo l’ecclesiologia idealista degli slavofili russi del xix secolo alla riscoperta della comunione ecclesiologica e prosopologica nei Pionieri greci degli anni sessanta-settanta (esistenzialismo cristiano). Questo vale in primis per Zizioulas ma anche per Yannaras, per non citare che due tra i più noti. Ciò nonostante, come è stato recentemente osservato, “non è accidentale che il riconoscimento positivo di gran parte dei contributi slavofili, alla fine del xx secolo, avviene con una nuova onda di reazione estesa alla cultura dell’illuminismo, alla sua scienza, individualismo e teologia”.

            L’importanza del pensiero russo ortodosso della diaspora per la generazione teologica degli anni sessanta in Grecia non potrebbe essere abbastanza sottolineata. La problematica slavofila sulla comunione, accompagnata da una struttura speculare di iconologia filosofica (idealista) – ed è ciò che mi sembra importante – arriva e si impone da noi, nella sua duplice forma ecclesiologica e prosopologica. Da parte ecclesiologica, arriva mediata tramite la rilettura di Afanas’ev (in Zizioulas); da parte prosopologica, è mediata tramite quella di Berdiaev (in Yannaras – attraverso una rilettura della prosopologia triadologica di Lossky, prolungata in maniera creatrice (o meglio proiettata in maniera anti-losskiana) in antropologia, con il contributo decisivo per il nostro dell’ontologia heideggeriana via Sartre).

            Non si può negare, credo l’influsso dell’ “eucaristiologia ecclesiologica” (e pneumatocentrica) di Afanas’ev su Zizioulas. L’ultimo, si sa bene, effettua una doppia correzione in ecclesiologia; da una parte tenta di equilibrare il pneumatocentrismo di Afanasiev dialetizandolo con il cristocentrismo di Florovskij in una specie di cristo-pneumatocentrismo ecclesiologico e d’altra parte tenta di sintetizzare l’eucaristiocentrismo carismatico di Afanas’ev con un episcopocentrismo istituzionale: la sua ecclesiologia comunionale essendo cristo-pneumatica non potrebbe essere chiamata semplicemente eucaristica, ma mi sembra eucaristica-e-conciliare. Malgrado tutte le correzioni dialettiche equilibranti in ecclesiologia (cristologia-pneumatologia, istituzione-carisma, storia-escatologia) e nonostante i suoi lavori interessanti sull’iconologia la  struttura ermeneutica binaria, speculare della realtà, dell’icona e dell’iconismo, alle origini filosofiche (idealiste) della quale abbiamo sopra accennato, resta sempre presente nella sua sintesi condizionandola; o meglio contestualizzandola... Ed è qui, a mio modesto parere, tutta l’importanza di un approfondimento rinnovato della questione su un’iconologia (veramente teo-logica) -e correlativamente su una misteriologia (veramente trinitaria)- in chiave decisamente cristica, vale a dire storico-salvifica.

Articolazioni iconologiche e questioni aperte
 


            Per capire questa mia affermazione sull’importanza delle strutture ermeneutiche e della questione iconologica in regime cristiano mi permetterò di formulare qui alcune delle mie aporie prosopologiche ed ecclesiologiche, sull’idea di comunione e di partecipazione alla comunione. Prima di passare all’ecclesiologia eucaristica comincio con la prosopologia relazionale. Quest’ultima sembra quasi più urgente come questione. Sottoscrivo in pieno all’ipotesi di monsignor Kallistos Ware secondo il quale in ambito teologico, il nostro nuovo millennio sarà quello dell’antropologia, senza che per questo venga meno l’interesse per l’ecclesiologia. Come lo dice bene l’illustre autore la questione centrale non sarà più soltanto ‘cosa significa essere chiesa’ (per le nostre comunità) ma anche – e più profondamente – ‘cosa significa essere persona’ (per l’uomo come tale) segnalando comunque la connessione intima per noi cristiani delle due questioni.

            Ora la mia aporia prosopolgica è la seguente: l’uomo-creatura di Dio è stato creato finalmente – in senso ontologico ed escatologico – a immagine della Trinità oppure a immagine di Cristo? Tale aporia, che non è solo mia, non mi sembrerebbe triviale o scolare bensì profondamente soteriologica. Poiché nel primo caso, se non sbaglio, la struttura del dono di personeità (nell’uomo) sarebbe “triadologica” (ossia relazionale, comunionale, eccetera); mentre nel secondo caso sarebbe strettamente cristica, per l’appunto cristo-misterica in senso trinitario (filiale per grazia, davanti al Padre e in attesa della cristificazione escatologica). In quale direzione va effettivamente la testimonianza apostolica è da tutti conosciuto. A ragione P. Nellas osservava che l’uomo non può essere detto semplicemente immagine di Dio ma immagine dell’immagine (unica) di Dio, perfettamente somigliante (increata) a Lui (il Padre) per natura, incarnata per noi (per grazia) come suo dono personale: come dono paterno stricto sensu, trinitariamente dispensato (cf. il Padre trinitario). Secondo quest’ultimo approccio (biblico-cristico) abbiamo un altro tipo di iconologia, non filosofica né di struttura binaria (immagine-prototipo) ma storico-salvifica; e per cosi dire ternaria, anzi misterico-trinitaria (cf. il mistero di Cristo, punto focale e ricapitolazione dell’economia paterna).  L’uomo non è immagine di Dio se non in Cristo ed attraverso Lui (nello Spirito). E dunque Dio, in tale contesto, significa Padre.

            Venendo adesso all’aporia ecclesiologica mi domando: la chiesa comunionale (eucaristica ecc) costituisce finalmente –nel doppio senso ontologico ed escatologico del termine – l’immagine della Trinità oppure quella del Regno escatologico? (Notate che nell’opera di Zizioulas, per esempio, è sostenuta sia l’una che l’altra iconicità e noi cerchiamo di capire la struttura iconologica…). Di nuovo, nel primo caso la struttura del dono sacramentale di ecclesialità (nella chiesa) sarebbe “triadologico” (relazionale, comunionale, eccetera), mentre nel secondo caso sarebbe cristo-misterico in senso trinitario; ossia materno per grazia, davanti al Padre, in attesa della ricapitolazione escatologica in Cristo e nello Spirito.

            Non vorrei stancarvi di più con queste mie aporie soteriologiche. Modestamente ritengo che in prospettiva storico-salvifica (di economia trinitaria) la chiesa non può che essere in via essendo innanzitutto cristo-misterica; seguendo cioè Cristo nella sua Pasqua verso il Padre, il Regno escatologico ed eterno. E che in quanto comunionale ed eucaristica, la chiesa comunionale ed eucaristica non potrebbe essere detta in campo teologico come semplicemente immagine della comunione trinitaria, bensì come immagine dell’immagine (escatologica) della comunione trinitaria, nel (del?) Regno venturo di Dio.

Tutto ciò suppone ovviamente che la storia della teologia (cf. tradizione ecclesiale) non si confonda, non soppianti ma sottostà alla storia della salvezza (cf. economia paterna); e sopratutto che non si perda il senso (orientamento, prospettiva) del “fondamento” (storico-salvifico) in teologia (ecclesiale) invertendo l’ordine del chi fonda che cosa e chi interpreta che cosa …

            Parlando di “economia trinitaria” o “dispensazione paterna” in modo trinitario – da non confondere con il modo “triadologico”, di una coesistenza panoramica, parallela – faccio qui riferimento all’economia della rivelazione del Padre in Cristo e nello Spirito, alla storia della salvezza, quella dell’autodonarsi di questo Dio a noi nell’umanità di Cristo per mezzo dello Spirito; quella dell’autodonarsi del Padre in Cristo e per mezzo dell’umanità cristica e sacramentale (ecclesiale) dell’autodonarsi di Dio all’intera Sua creazione, al nostro mondo. Le categorie soteriologiche dunque di “rivelazione” e di “economia” vanno intese in modo trinitario (non “panoramico-triadologico”) e si riferiscono rispettivamente al mistero della presenza e dell’azione salvifica di Dio (il Padre, in Cristo e nello Spirito) a noi nella storia per la vita del mondo. Per la fede biblica – nella sua rilettura apostolica per lo meno – l’economia di Dio per noi (in Cristo) e l’“economia della rivelazione” di questo Dio (nella storia) si implicano a vicenda; esse sono finalmente lo stesso mistero (cf. Ef. 1, 3-14).

Storia delle teologie e delle culture – storia della salvezza 

(economia e rivelazione)
 

            In regime biblico-ecclesiale e per la fede apostolica si tratta di “economia trinitaria” e di “rivelazione trinitaria”, dell’agire e dell’autodonarsi trinitario di Dio e Padre (in Cristo e nello Spirito) a noi e per tutti; per l’intera umanità travagliata dall’inizio e per l’insieme della creazione, abusata in modo persistente. Se dunque i termini comunione e solitudine richiamano la storia dell’avventura umana (in Adamo nella solitudine della separazione: delle tradizioni teologiche e delle chiese…), per noi cristiani richiamano prima di tutto la storia dell’economia-e-rivelazione trinitaria di Dio e Padre (in Cristo e nello Spirito: la salvezza in Cristo delle tradizioni teologiche e delle chiese…). E quindi, a partire del mistero pasquale di Cristo Gesù (nello Spirito e verso il Padre) ci spingono a meditare sul mistero personale-in modo ecclesiale di Gesù di Nazareth (nella storia e verso il regno venturo), verso il compimento escatologico dell’economia-e-rivelazione del nostro Dio.

Conclusione


            Cari amici: quando la storia (della chiesa) e l’ermeneutica (della tradizione) in teologia, quando la storia delle teologie (cf. tradizione delle chiese) e la storia della salvezza (cf. mistero di Cristo) non mantengono continuamente le loro alterità reciproche l’una verso l’altra, tale un dialogo aperto al futuro di Dio, ossia all’avvenire del Regno – inteso quest’ultimo come un terzo, come giudice definitivo – allora in teologia cristiana l’ermeneutica (storico-salvifica) rischia di essere bloccata dalla e nella storia (delle teologie); ciò tramite un corto circuito ermeneutico che rischia di confondere lo storico-teologico plurale (peggio, una parte dello storico-teologico) con lo storico-salvifico in Cristo (nella sua cattolicità escatologica).

            La costatazione storica di una “pseudomorfosi” non-ortodossa in piena ortodossia, al dire di Florovskij, e il suo plaidoyer ermeneutico per un’urgente sintesi “neo-patristica” sono strettamente collegati. A mio modesto parere la questione sul cerchio ermeneutico tra storia, mistero e salvezza in teologia cristiana, la questione di un’articolazione pertinente tra storia della salvezza, storia della cultura e tradizione ecclesiale (nella storia e verso il regno) non è stata finora sufficientemente problematizzata in campo ortodosso. L’articolazione tra storia ed ermeneutica in teologia sistematica coram Deo, tra teologia e cultura nella chiesa davanti al Regno venturo, resta sempre un punto delicato, direi il punto debole di ogni progetto di tipo “neo-patristico”; in quanto appunto progetto tendente ad omogeneizzare la storia delle teologie e, confondendola con la storia della salvezza, ad idealizzare la tradizione patristica o una parte di essa (cf. l’ellenismo patristico come “categoria eterna dell’esistenza cristiana”) erigendola a fondamento al posto della testimonianza apostolica.

            Dal punto di vista storico-salvifico ed in contesto teologico la storia (e la tradizione ecclesiale nella storia) non è omogeneizzabile, per il fatto che è costituita in modo paradossale sia nella pluralità ecclesiale ma soprattutto come continuità nella discontinuità: non solo in continuità con il passato ma anche nella discontinuità rispetto al passato (in apertura alla novità del futuro di Dio). Ed è costituita nel “oggi di grazia”, la storia,  non a partire da se stessa (come auto-possesso del suo passato nell’oggi) ma a partire dal regno venturo, dal futuro sempre nuovo ed imprevedibile in assoluto di Dio-con-noi, come suo dono. Da questo punto di vista escatologico (o meglio escato-misterico), un tradizionalismo teologico come pure un modernismo teologico, avendo perso di mira il fondamento (storico-salvifico), si accostano nella semplificazione del paradosso (cioè del mistero) del dono ecclesiale (e della tradizione ecclesiale) di Cristo nella storia. Il modernismo punta sulla discontinuità culturale a scapito della continuità (finalmente dell’eph’hapax paolino) e il tradizionalismo in senso inverso tenta di esorcizzare la discontinuità culturale sostituendola con una continuità artefatta, idealizzata e proiettata nell’assoluto (o nel futuro) come categoria eterna della teologia. Mi sembra pero che tutti e due, sebbene in modo opposto, tentino di autoporsi, di autofondarsi nella storia – a partire della sola storia (modernismo) o della sola Traditio (tradizionalismo) – anziché di riceversi sempre di nuovo nella storia à partire dal fondamento stesso della storia: a partire dell’Altro della storia, a partire dal regno venturo di Dio e come suo dono (del regno) per noi e la nostra storia.
PUBLICATO in S. Chialà, L. Cremaschi e.a (a cura di), Comunione e Solitudine: Atti del XVΙΙΙ Convegno ecumenico internazionale di spiritualità ortodossa, Bose 8-11 settembre 2010, edizioni Qiqajon, Magnano 2011, σ. 255-268.







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